Tra un soggiorno climatico e una pandemia, è da quasi un anno che viviamo da queste parti, in Trentino. Siamo i fortunati ospiti di una seconda casa che qualcuno ci ha messo a disposizione. Un po’ piccola, ma molto accogliente.
Si impara molto vivendo in due stanze spoglie in quattro. Per i vestiti, ad esempio, abbiamo un cassetto a testa e io ho perfezionato la mia già divina sciatteria: tre pantaloni, di cui uno senza buchi né chiazze d’olio per le occasioni importanti; tre felpe con cappuccio; sei magliette e così via. La cosa buona è che non mi serve nulla di più: per me è abbastanza e quando avrò la possibilità di ricongiungermi col resto del mio guardaroba credo che ne darò via una buona parte.
Lo stesso vale per molte altre cose come libri, biciclette, apparecchi tecnologici. Riducendo all’osso si vive bene lo stesso, senza bisogno di espandersi chissà quanto. (A questo punto non so se parlare dei 20 metri quadri che ho occupato, su in solaio, con i miei attrezzi, ricambi e scatole di ferramenta. Forse meglio di no, per il bene del concetto che voglio esprimere.)
Per noi la provvisorietà si è fatta sistema, già da molto prima di arrivare qui, ma non è che ci divertiamo a pestarci i piedi nell’unica stanza che usiamo di giorno e a lavorare al computer con le cuffie da giardiniere in testa. Siamo in cerca di una casa che ci rassomigli, ed è più difficile di quanto sembri.
La casa l’avevamo trovata, in realtà: un bel maso in Valsugana (vedi foto). Ma qualcosa è andato storto nella trattativa, il proprietario ci ha fatto un brutto scherzo e l’ha venduta a un altro (che probabilmente gli ha offerto di più). Ci avevamo investito tempo e immaginazione, ad esempio per capire come percorrere quel chilometro che ci avrebbe separato dalla civiltà in caso di neve, dove trovare la legna per scaldarci autonomamente, dove mandare i bambini a scuola… Babbo Natale mi ha perfino portato una torcia frontale per le mia passeggiate notturne e mi stavo documentando su come comportarmi nel caso di incontro ravvicinato con un orso bruno (indietreggiare piano, non affrontarlo, al limite disseminare qualche oggetto).
Ma quella casa, grande e circondata da terreno di proprietà, da ristrutturare ma non da abbattere, isolata ma a un passo dalle scuole e i supermercati e le poste… è andata. (Qui seguirebbe turpiloquio)
La ricerca continua. Il posto in cui siamo ora ci piace, ma le case qui sono care. E a questo proposito, siamo tornati a chiederci di cosa abbiamo veramente bisogno. Se la nostra sete di luce, di spazio e di bellezza non sia solo una reazione compensatoria per l’aver vissuto una vita nella città metropolitana di Milano. La scottatura della casa persa ci mette davanti a un dubbio: per avere tutto, finiremo col trovarci con niente?
Mi tornano in mente le parole di Kurt Vonnegut, lette qualche tempo fa. Il libro si intitola Quando siete felici fateci caso ed è una raccolta dei suoi discorsi alle cerimonie di laurea, negli Stati Uniti. Tra i molti aneddoti, racconta del suo incontro con lo scrittore Joseph Heller, autore di Comma 22, alla festa di un multimiliardario. Vonnegut chiede: “Joe, che effetto ti fa sapere che solo nella giornata di ieri probabilmente il padrone di casa ha fatto più soldi di quanti Comma 22, uno dei libri più famosi di sempre, ne ha incassati in tutto il mondo negli ultimi 40 anni?” Heller risponde: “Io ho qualcosa che lui non potrà mai avere: la consapevolezza di avere abbastanza.”
Forse questo c’entra poco con la necessità di scegliere una casa adatta alle esigenze, ma trovo che sia un buon principio guida. Sapere che comunque vada, anche ora, anche se dovessimo tornare a Milano, abbiamo già abbastanza.