Razzi, asparagi e trattori da guerra

I mezzi d’informazione hanno deciso che la pandemia è finita. Anche noi, da questa parte degli schermi, siamo stufi: quel centinaio di morti al giorno non ci fa più effetto e dobbiamo passare a qualcosa di più forte. Adesso c’è la guerra in Ucraina: oltre 6 milioni di sfollati, morti difficili da quantificare da una parte e dall’altra del fronte, un nemico tutto nuovo e in carne e ossa che risponde al nome di Vladimir Putin. Per inciso le guerre nel Tigré (almeno 400 mila morti), in Yemen (circa circa 380 mila morti), in Siria, in Mali, e tutte le altre che non sappiamo bene dove siano sul mappamondo, quelle non ci sono. Nessuno ne parla. Sarà perché gli ucraini sono bianchi, sarà perché le bollette aumentano. Sarà che abbiamo paura.

I bambini ci sono dentro fino al collo, proprio come noi. Negli ultimi tempi il bagaglio lessicale di Francesco, 4 anni appena compiuti, si è arricchito e specializzato. Lo osservo giocare, lo ascolto… Il sorriso è sempre lo stesso, la voglia di muoversi anche. Ma dal suo immaginario saltano fuori espressioni nuove. Quelli che prima erano trattori verdi, rossi, grandi, enormi, giganti… (lui adora vedere i trattori passare) ora sono trattori da guerra, che sfilano sulla provinciale diretti ai campi, forse campi di battaglia. I rami trovati a terra sono razzi, i sassi sono bombe.

E poi ci sono gli asparagi, nell’orto. Lui non ne ha mai visto uno di asparago, almeno non che io sappia. Nel nostro orto non ce ne sono. Non so dove abbia sentito quella parola, né quali connessioni abbia fatto nella sua testa: di certo per lui c’entrano qualcosa con l’orto, perché sono verdi e spuntano dalla terra; e c’entrano con la guerra, perché se si chiamano asparagi dovranno pur sparare.

La fantasia, il gioco simbolico, l’espressione di sé in genere sono una buona cosa, questo lo so. Giocando e inventando storie Francesco elabora a suo modo ciò che percepisce come una minaccia, forse vicina o forse lontana. Una minaccia, di questo lui è sicuro, che rende scure le facce dei suoi genitori.

Buttare fuori, in qualsiasi modo, è importante per i bambini. Per questo il silenzio di Elisa, che di anni ne ha 6, mi preoccupa. So che non si perde niente, la vedo assorbire senza filtri immagini e parole dal maledetto televisore. Non so quale idea si sia fatta di questo nuovo guaio, dopo quell’altro guaio durato due anni. E due anni sono tanti per chi è al mondo da sei.

Per questo mi riprometto due cose: spegnere più spesso il televisore, e cercare di aprire spazi di dialogo con entrambi. Non so ancora come: con il gioco, disegnando, con una storia? Perché forse anche loro sono preoccupati del mio silenzio.

bambino

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