Quarantena blues #5 – L’ipocrisia del tricolore

Da molte finestre e balconi pendono bandiere tricolore. Il mio vicino, che forse ha un passato da militare, ogni giorno ne issa una su un’asta rudimentale e la lascia sventolare per tutto il giorno. Fa un bell’effetto starla a guardare, sullo sfondo dei monti e del cielo azzurro.

Sulle facciate delle case, poco a poco le bandiere stanno prendendo il posto degli arcobaleni disegnati dai bambini, degli ormai sbiaditi “Andrà tutto bene” dettati da adulti tutt’altro che sicuri del fatto loro.

Il 4 maggio, giorno dell’avvio della cosiddetta fase 2, la gazzetta regala un poster plastificato con il tricolore e con la prima pagina del quotidiano rosa che celebrava la vittoria ai mondiali del 2006.

In TV si sente parlare ossessivamente di calcio, di quando riprenderà il campionato, delle vittorie passate della Nazionale, mentre Giorgia Meloni e i suoi camerati esibiscono mascherine con i colori nazionali ad ogni occasione.

I pubblicitari si adeguano all’andazzo e, mentre l’acqua Valmora “veste tricolore”, Poltrone e Sofà, che anche nel mezzo di un attacco nucleare venderebbe i divani con il 70% di sconto (ma solo fino a domenica), ci fa sapere che anche se sono fermi, non smettono di creare, progettare, disegnare. Perché “oggi, il coraggio e l’orgoglio di essere italiani, si mostra così: prendendo il futuro nelle nostre mani.”

Il linguaggio della narrazione dell’emergenza sanitaria si rifà alla guerra, per bocca di giornalisti e commentatori che non ne hanno mai vista una. Gli italiani si dividono tra eroi in prima linea e civili chiusi nelle loro case che devono sentirsi grati, essere ottimisti e, all’occorrenza, vergognarsi.

Tutti a casa con le mani legate, insomma, mentre lo Stato promette di non lasciare indietro nessuno e si indebita per miliardi che le generazioni future dovranno restituire.

Intanto i prezzi di frutta e verdura crescono e nei campi e nei frutteti si avvicina il tempo del raccolto. All’improvviso ci si chiede chi se ne occuperà, ora che gli stranieri non possono entrare in Italia. I prodotti rischiano di marcire al suolo, mettendo in ginocchio le aziende agricole, e l’Italia si sveglia dal suo sonno ipocrita. Finge di non sapere nulla di baraccopoli senza acqua né elettricità, di casolari abbandonati, di gente che lavora per anni e senza tutele per 30 euro al giorno.

All’improvviso si sente parlare di regolarizzazione degli stranieri impegnati nell’agricoltura come stagionali. È una buona cosa, che potrebbe proteggere dallo sfruttamento i braccianti irregolari già presenti sul territorio. Insieme a questa, molte altre situazioni di fragilità vengono a galla, e sembra che sia arrivata l’occasione per rimettere a posto le cose.

Ma come facciamo a non sentirci a disagio? È questa la grandezza italiana che mettiamo a sventolare? Pensare ognuno ai fatti propri finché il giocattolo non si rompe e poi piangere insieme dei bei tempi andati? Giocare sporco e poi cercare un piccolo atto riparatorio per far tornare tutto come prima, come facevamo da bambini con tre avemarie e un padrenostro?

Mi chiedo il perché di tutte queste bandiere appese ai balconi e mi rispondo che abbiamo paura. Ci siamo accorti che nessuno si salva da solo, anche se so che ce ne dimenticheremo non appena riavremo indietro il nostro lavoro, il nostro centro commerciale, il nostro campionato. Abbiamo bisogno di sentirci uniti, e siccome non c’è sostanza nella nostra unità abbiamo bisogno di simboli immediati, con cui sia facile riconoscersi. Ed eccoci qui, con le nostre bandierine, a poca distanza da un 25 aprile che ormai viene definito “divisivo” e da una memoria ritoccata giorno dopo giorno fino a farsi irriconoscibile.

Come bambini abbiamo bisogno di essere distratti dal ricordo di quando la nostra nazionale ha vinto i mondiali, di sentirci dire che andrà tutto bene anche se non è vero. Sventolare il tricolore è un modo per non fare i conti con la complessità della situazione, come gli hashtag e i tutorial per fare ginnastica in casa. Ci rifugiamo nel “Siamo italiani, ce la faremo”; bandiera e slogan ci danno coraggio, ma non possiamo appoggiarci a queste cose senza il rischio di cadere nel vuoto.

Per quanto mi riguarda non ho nulla contro la bandiera italiana e non sento l’esigenza di sventolarne una. Vorrei che il tricolore avesse per tutti lo stesso significato, anziché essere l’ennesimo terreno di scontro o uno strumento di strumentalizzazione politica. Vorrei che fosse legato all’identità, sfaccettata e sempre mutevole, anziché sul concetto di nazione, che per definizione è connesso a un’identità fondata sulla differenza (superiorità?) rispetto a chi non ne fa parte.

2 comments Add yours
  1. La questione regolarizzazione dei migranti é stata gestita in modo patetico da tutti i fronti. Ma tanto, se andiamo avanti così, tra poco toccherà di nuovo a noi migrare per trovare un futuro migliore. E allora, scommetto che coloro che adesso vorrebbero chiudere i porti, si lamenterebbero di chi ce li avrà chiusi in faccia….

    1. Hai ragione. E temo che non servirebbe nemmeno da lezione. Nella loro testa i migranti di oggi sono invasori (anche se non ci pensano due volte a sfruttarne la debolezza, una volta arrivati) e chi un domani non accettasse loro come migranti sarebbe un razzista. Poco importa se c’è una totale contraddizione in questo. Dubito che qualcuno arriverebbe a concludere: allora io sono stato un razzista, quando facevo la stressa cosa ad altri. Non si può più nemmeno usare la logica, con loro, perché tutto è possibile anche se è implausibile.
      Sono pessimista. Forse esagero…. È un periodo così. 🙁

Rispondi