Se fossi una casa

Di tutti i posti in cui ho vissuto, per brevi o lunghi periodi, questo è il primo che mi viene in mente se penso alla parola “casa”. Il rifugio in cui, senza troppe paranoie, mi levavo gli stivali infangati, tiravo un sospiro dietro la porta chiusa e mi sentivo subito al mio posto.

Si trovava – parlo al passato perché dubito sia ancora in piedi – sull’isola di Wahieke, in Nuova Zelanda, poco lontano dall’abitazione di Michelle, una donna sola e incasinata che ospitava me e Laura in cambio di lavoro nell’inverno australe del 2012. A pochi metri dal mare (che non si vedeva ma si sentiva), seminascosta nella boscaglia, si ergeva precaria una costruzione in legno senza fondamenta, senza servizi, acqua corrente né elettricità. Un’unica stanza, forse 15 metri quadrati, con un letto, sottili finestre panoramiche e poco altro.

Accanto alla porta, nella quale c’era un buco dovuto a un’asse marcita, una vecchia stufa a legna animava di rosso e ombre le pareti in legno durante le sere di stanchezza, dopo il lavoro negli orti. Spesso la pioggia batteva sulla lamiera del tetto così forte da coprire ogni altro suono e scoraggiando conversazioni tutto sommato non necessarie.

Leggevo accanto al fuoco, seduto su una sedia a sdraio arrugginita, illuminando le pagine con una torcia appoggiata alla spalla. Suona come un cliché, lo so, ma non ricordo di essere riuscito a leggere con tanto piacere, voltando le pagine fino a notte fonda, in nessun altro luogo dotato di TV, serramenti a doppio vetro e caldaia a camera stagna. E poi era inverno, le pareti fischiavano per gli spifferi, e il fuoco faceva il suo dovere in quanto a calore.

Raccoglievo la legna del bosco, più che altro per la poesia insita nell’atto. La legna vera, quella asciutta, quella che tenevi il ciocco più grande per ultimo e lo trovavi ancora lì moribondo la mattina dopo, ce la dava Michelle o la compravamo nel paese più vicino.

Anche il bagno lo forniva Michelle. Per le faccende meno impegnative io preferivo il bosco, ma per il resto c’era questo water, che in sostanza era la parte terminale di una grossa buca che andava a finire sotto la casa, vicino all’orto. I frutti dei nostri sforzi sarebbero serviti, più avanti, come concime per la roba che mangiavamo. Un circolo virtuoso, ma anche un po’ merdoso.

Molti se ne sarebbero andati subito da un’alloggio simile. Pochi l’avrebbero adorato. Io ho semplicemente sorriso e sono andato a cercare un’asse di legno e dei chiodi per riparare la porta, sono salito sul tetto per riallineare le lamiere, ho fatto scorta di legna. Sorrido anche adesso, mentre ci penso.

Credo che il minimalismo faccia per me: meno è meglio. Non mi serve l’aria condizionata, non voglio chiamare il tecnico cella caldaia per la revisione biennale, trovo assurdo impegnare un tetto di lamiera per proteggere il tetto di lamiera di un’automobile. Penso che molti comfort mi complichino la vita. Mi confondono e non capisco più di cosa ho bisogno.

Non voglio fare l’eremita (per ora), né il vagabondo (per ora). Nemmeno il santo che si spoglia dei suoi abiti (bucati). Voglio solo un’esistenza semplice, e una casa semplice.

[con un grazie a Valentina N., che mi ha spronato a scrivere finalmente un altro post]

lavaggio denti in veranda

 

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