Mio cugino, mio cugino – racconto di Davide Re

Apparentemente era un pomeriggio qualunque. Forse uno sguardo più attento al calendario avrebbe svegliato istinti irrazionali ma rodati, messo in moto luoghi comuni e routine tradizionali e quindi, forse, lo avrebbe messo in guardia. E invece quel giorno mio cugino non si era accorto di nulla. Non sarebbe stato necessario conoscere né la Smorfia né la Cabala per sapere che il numero diciassette, da quando è stato inventato per contare le dita dei piedi oltre a quelle delle mani, porta una sfiga pazzesca. Lo stesso ragionamento vale per il mese di Novembre: grigio e triste come un funerale – e infatti contiene il giorno dei morti – lo capisce anche un bambino che non può portare nulla di buono. Sull’anno 2020 non sprecherò parole. Va da sé.

Così, ignaro di tutto, il giorno 17 Novembre di quell’anno funesto mio cugino si dedicava al suo quotidiano pendolarismo di rientro, nel buio del tardo pomeriggio. Sempione, incolonnamento, fari negli occhi, autoradio, noia. Si potrebbe dire che si trovava in una di quelle fasi della giornata in cui i gesti si ripetono uguali da sempre, in cui ogni cambio di marcia, frenata, azionamento di una freccia, sembra perfettamente programmato, se non fosse che proprio quel giorno una forza maggiore aveva deciso di rompere l’incantesimo.

Mio cugino si trovava nei pressi del vecchio distributore di benzina in disuso da anni, la cui vista ha il potere di mandare al suo cervello il segnale dell’astinenza da nicotina. Non saprei se mio cugino ne è consapevole ma ogni giorno si accende una sigaretta proprio lì, subito dopo la curva che dà accesso a questo impulso visivo. Se fosse stata una giornata ordinaria lo avrebbe fatto anche quella volta ma, come ormai sarà palese, non lo era per niente. Sia chiaro: il tabagismo non va mai in vacanza e anche in quell’occasione la voglia di fumare arrivò, ma tra il pensiero e il gesto si era insinuata la distrazione, che a volte è salvifica e altre no.

Non appena ebbe percorso la curva, infatti, mentre già la mano sinistra tastava il petto alla ricerca del taschino e delle Muratti, fu travolto da una visione che come uno tsunami spazzò via in una sola ondata ogni forma di prevedibilità dal suo monotono viaggio verso casa. Una cascata di riccioli biondi arrivava quasi a nascondere le rotondità di un paio di pantaloni attillati, proprio sotto la luce di uno dei rari lampioni della statale. Le auto incolonnate passavano accanto a una donna molto attraente, per quanto si poteva vedere da questa prospettiva, e la lasciavano lì a spingere il suo monopattino elettrico in panne senza slanci né di generosità né di opportunismo.

– Ma che razza di froci!

Dimenticato il fumo, la sinistra corse ad azionare la freccia per accostare, nella speranza che nessuna delle automobili precedenti gli avrebbe tolto la soddisfazione di riscattare personalmente la reputazione di tutti i pendolari di passaggio in quel freddo pomeriggio.

– Ciao! Ti serve aiuto?

Occhi verdi, sorriso timido e seno abbondante. In famiglia abbiamo istinto per certe cose e mio cugino non è da meno.

– Sì, grazie. Questo trabiccolo si è scaricato. C’era scritto 30 km di autonomia ma devo aver sbagliato i conti – risatina.

Monopattino nel bagagliaio, riscaldamento alla massima potenza – avrai freddo poverina – e playlist da rimorchio in sostituzione al notiziario sul traffico. Tanto ormai non c’era più fretta.

La preda stava rientrando dal lavoro. Percorreva ogni giorno quel tratto di strada che separava la sua abitazione da quella della vecchietta di cui si prendeva cura, a bordo della sua bicicletta. Solo nelle ultime settimane si era procurata quel monopattino utilizzando alcuni incentivi statali. Stranamente mio cugino non l’aveva mai vista.

Dopo aver inviato alla moglie un messaggio per avvertirla che avrebbe tardato, mio cugino iniziò con le solite domande e frasi di circostanza per accorciare le distanze. La ragazza faceva davvero un bel lavoro, doveva proprio avere un cuore grande. Chissà come deve essere dura vivere in un paese straniero, anche se parla benissimo l’italiano, complimenti. Vive sola? Le manca il marito che la aspetta in Ucraina con i figli? Certo che però, una donna sola per mesi… ma come farà poverina. Del resto siamo fatti di carne, ahahaha.

I tentativi non ebbero successo. Occhi verdi rispondeva alle domande con il numero di sillabe strettamente necessario. Dopo i primi minuti, capita l’antifona, aveva smesso di sorridere e aveva fissato lo sguardo dritto davanti a sé. I silenzi divennero sempre più lunghi e l’imbarazzo denso e irrespirabile.

Mio cugino, però, non aveva intenzione di farsi prendere per il culo. Vengono qui, lavorano in nero e non pagano una tassa, scroccano i passaggi e si permettono pure di non essere un minimo riconoscenti verso chi gli dà una mano. Inoltre vanno in giro con i pantaloni appiccicati alle chiappe e poi fanno le suore. Ma dai! Non ci crede nessuno.

Così, quando era ancora ben lontano dal posto in cui avrebbe dovuto far scendere la sua passeggera, mio cugino decise di approfittare di una “scorciatoia” poco trafficata per fermare l’automobile.

– Se non mi dai un bacio te la fai a piedi.

Ormai era inutile fingere toni diversi. E poi mio cugino non è uno di quegli ipocriti che parlano di fiori e di costellazioni mentre hanno in mente parti anatomiche e secrezioni corporali. La situazione era chiara e lui non ha mai amato i convenevoli.

Inizialmente la russa provò a fare resistenza e a fingere che non fosse quello che voleva anche lei. Ma poi alla fine cedette, sia perché non le andava di essere lasciata al buio in un posto che non conosceva affatto, sia perché – diciamocelo – non vedeva un uomo da mesi.

– Solo un bacio e poi ti levi dai coglioni. Stronzo.

Meglio di niente, no? Almeno si sarebbe ripagato di quei minuti persi appresso a ‘sta figlia di Putin.

Quindi mano sulla coscia, slinguazzata, tentativo di andare oltre e schiaffo. Poi fine perché mio cugino è sportivo e sa rispettare le regole, mica è un porco stupratore. D’altronde evidentemente la zozzona aveva le sue cose, se no figurati.

Dopo un interminabile silenzio furono nei pressi della destinazione promessa per il passaggio. Mio cugino da galantuomo fermò la vettura a bordo strada e salutò gentilmente la beneficiaria della sua magnanimità, poi aprì lo sportello e si diresse verso il bagagliaio. Quando lo aprì si accorse con grande stupore che il monopattino era sparito. Chiudendolo guardò nell’abitacolo e non vide più la donna. Ma dov’era finita? Tutt’intorno non c’era anima viva. Solo buio, freddo e nebbia.

Spaesato tornò al posto di guida. Lo zaino che aveva spostato dal sedile del passeggero per fare spazio alla bionda era di nuovo lì al suo posto e l’autoradio stava annunciando un incidente sulla Tangenziale Ovest. Mi cugino da una parte non riusciva a spiegarsi che cosa fosse successo, dall’altra non gli importava poi molto. Forse era persino meglio così.

Stava per ripartire verso casa quando, prima di rimettersi in carreggiata, diede un’occhiata veloce allo specchietto retrovisore. Alcune pennellate di rossetto avevano lasciato sul vetro riflettente un messaggio inequivocabile: Benvenuto nel Covid.

[Photo by Joanna Nix-Walkup on Unsplash]

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