L’ombra di mio padre

[Questo è il racconto arrivato terzo al Premio Straparola di Caravaggio lo scorso 26 settembre. Motivazione della giuria, presieduta dallo scrittore Raul Montanari:

“Un ragazzino terrorizzato nel sottoporsi al bungee jumping, sotto gli occhi di un padre che non ammette che il figlio possa avere paura; e poi, molti anni dopo, gli stessi personaggi a parti invertite, il figlio nel pieno della forze e del successo, il padre invecchiato ma ancora incombente.

Due scene indimenticabili (la prima è degna di Stephen King) e un confronto intensissimo, nel quale tutti possiamo ritrovare qualcosa di noi stessi.”]

***

Il ragazzino muove un passo verso il bordo della piattaforma. Si sforza di non guardare nel vuoto, ma il vuoto è a meno di un metro.
Manca poco al tramonto, ha il sole alle spalle e accanto ai piedi vede l’ombra di suo padre. Si gira a guardarlo: l’uomo annuisce e sorride, fiero. È appoggiato al cancelletto d’ingresso con una fune di sicurezza intorno alla vita. Prende il pacchetto dal taschino della camicia e si accende una sigaretta riparando la fiamma tra la spalla e il palmo della mano.
Sul ponte molte persone stanno a guardare, appoggiate al parapetto di metallo. Da qualche parte ci sarebbe anche sua madre, se non fosse morta quell’inverno. 175 metri più in basso, sul fiume, un gommone accompagna a riva un donna dai capelli scompigliati. Poco prima, mentre aspettava il suo turno, il ragazzino l’ha vista spalancare le braccia e lasciarsi cadere. Ha sentito il suo urlo farsi sempre più fievole e riecheggiare tra le montagne. Suo padre gli ha messo una mano sulla spalla. Prima gliel’ha accarezzata e poi, come per correggersi, l’ha colpita con due vigorose pacche.
Il ragazzino tenta un altro passo in avanti. Una raffica di vento si alza tra le pareti della gola; l’enorme striscione con la scritta Bungee Jumping si gonfia e sbatte contro i piloni del ponte su cui è montata la piattaforma. Il giovane tiene d’occhio il suo vecchio, i capelli e il fumo che si muovono nella stessa direzione del vento, mentre l’addetto controlla la tenuta dei moschettoni e dice:
“Pronti!”

L’uomo dietro alla scrivania mi mostra un sorriso da otto caffè al giorno e mi porge una penna dai bordi dorati. Ho aspettato questo momento per vent’anni, infilando un giorno dopo l’altro, un giorno uguale all’altro, con inflessibile cecità.
“Io non firmo” provo a dire, ma dalla mia bocca esce solo un verso. L’uomo dietro alla scrivania mi conosce da una vita, dice: “Ce l’hai fatta, ragazzo mio. Sono fiero di te.” Se ci sono proprio io e non un altro davanti a questo contratto è perché sono maledettamente bravo in quello che faccio. Anche se odio quello che faccio. Se questa fortuna è toccata a me è perché sono il più costante e talentuoso vigliacco su questo pianeta.
Sento che devo gettargli in faccia i suoi fogli, i suoi trecentomila euro l’anno. La sua Maserati aziendale. Ma lui non ha colpa, e comunque so che non ci riuscirò. Ci sei tu, papà, dietro di me. Come sempre, a indicarmi la strada. Vedo la tua ombra allungarsi sul tavolo, immagino il tuo sorriso così fiero di questo figlio, che è proprio come lo volevi tu. Prendo la penna, la mano mi trema.

Il salto dal ponte è il regalo di suo padre per la promozione in terza media. Lui aveva chiesto un pianoforte.
L’addetto prende la ricetrasmittente dal taschino del gilet:
“Via libera?”
“Libera” risponde il suo collega dal gommone.
Gli spettatori sul ponte abbassano il tono della voce, si sporgono per vedere meglio. L’addetto si rivolge al ragazzino:
“Sei pronto?”
Il ragazzino guarda suo padre; l’uomo alza il pollice della destra, sorride. Lui però non risponde alla domanda.
“Oh, bello! Sei pronto?” ripete l’addetto.
Il ragazzino annuisce ma resta fermo dov’è. Il piede destro a trenta centimetri dal bordo, il corpo proteso all’indietro a contrastare vento e paura. Di nuovo si sforza di non guardare di sotto e di nuovo una vertigine gli toglie il fiato. Il cuore gli batte forte e il sudore gli gela la schiena.
L’addetto lo guarda in faccia, lo tira indietro per un braccio:
“Ragazzo, siediti un attimo.”
Gli avvicina una sedia di plastica e prende di nuovo la ricetrasmittente.
“Abbiamo un forse” dice. “Dammi due minuti.”

Ti ricordi la domenica in cui ho trovato la chitarra, su in soffitta? Eh, papà? C’era anche quel manuale ingiallito, poche pagine illustrate. Si chiamava Chitarristi in ventiquattr’ore. Avevo nove anni. Com’ero contento quando alla fine della giornata riuscivo a produrre quei due accordi, DO e SOL7. Mi sono fermato solo per mangiare. Poi sono venuto di là, ti ho detto: “Ascolta, pa’.” E tu mi hai ascoltato, mi hai detto “Bravo” e forse mi hai anche scompigliato i capelli. Ma nella tua voce, nelle tue mani… Il modo in cui hai detto “Bravo.” Quel sorriso, fatto per assecondare un bambino che ha appena detto una sciocchezza.

Il ragazzino si gira verso suo padre. L’uomo sorride ancora, spalanca gli occhi e fa un gesto con la mano che significa Forza, cosa aspetti? Lui si rialza e fa un passo verso il bordo, ma si blocca di nuovo. L’addetto lo prende per le spalle.
“Rilassati,” dice, “respira. Quando sei pronto me lo dici.”
Il ragazzino guarda le persone in coda dietro di lui. Poi guarda il pubblico; cerca sua madre e non la trova. Guarda di nuovo suo padre, che non sorride più.
“Devi solo fare il primo passo!” dice l’addetto. “Poi vedrai che lo vorrai fare di nuovo.”
Il ragazzino prova a sorridere, fa un altro piccolo movimento in avanti. L’addetto guarda l’orologio. La ricetrasmittente gracchia:
“Allora?”
“Ci siamo, dagli un attimo” risponde l’addetto.
Poi batte una volta le mani e dice al ragazzino:
“Che facciamo, campione?”
Il ragazzino guarda suo padre, lo trova con lo sguardo al pavimento.

Stamattina venendo in ufficio ho visto un barbone. Era sul marciapiede opposto al mio, trascinava un carrello pieno di coperte. Sai una cosa, papà? Camminavo nel mio vestito migliore, sentivo il colletto rigido sulla barba appena fatta, il ticchettare delle mie scarpe lucide sull’asfalto… e lo invidiavo. Un uomo con un carrello, senz’altra ombra che la propria.

L’addetto dice: “Non sei obbligato a saltare.” Lo dice urlando, perché c’è molto vento.
Il ragazzino lo guarda negli occhi. Poi guarda di nuovo suo padre, ma l’uomo si volta di lato. La brace della sigaretta sempre più vicina alle dita.
“Se non ti va, non c’è problema,” urla l’addetto, “però ti devi decidere.”
Il ragazzino fa un altro piccolo passo in avanti, vede l’ombra di suo padre muoversi per terra e sa che è tornato a guardarlo. Avanza ancora, chiude gli occhi. Fa un respiro più profondo degli altri. Sa che il vuoto è lì davanti, meno di dieci centimetri.
“Ok, bravo ragazzo!” dice l’addetto. “Conto alla rovescia e poi ti do una bella spinta.”
Il ragazzino annuisce.
“Tre.”
Respira.
“Due.”
Non guardare.

Stasera c’è un ricevimento in mio onore, su all’ultimo piano. Non sei voluto mancare. Ti guardo nel tuo completo per le occasioni importanti, col calice di vino bianco in mano, e mi accorgo solo adesso che sei invecchiato. La schiena ingobbita, il volto segnato, il passo lento. Si vedono tutti, i tuoi settanta.
Ti seguo in terrazza, lo so che vuoi fumare. Ci sono tante cose che ti potrei dire, che vorrei che tu dicessi. Prendo l’accendino dalla tasca e ti faccio accendere.
“Ti ricordi di quella chitarra che trovai in soffitta?”
Tu posi il bicchiere sul davanzale in marmo della terrazza, ti issi a sedere con lo slancio di un ragazzino, con la lentezza di un vecchio. Fumi. Dietro di te il vuoto, tredici piani di finestre buie. Scuoti la testa: no, non te lo ricordi. Ci sono eventi che per me sono stati cruciali e che non ti hanno nemmeno sfiorato.
“E del salto dal ponte, te lo ricordi?”
Mi guardi. Riprendi il bicchiere, bevi.

“Tre.”
Respira.
“Due.”
Non guardare.
“U…”
“No!”
Il ragazzino urla e fa uno scatto di lato. L’addetto perde l’equilibrio per la spinta mancata e si afferra alla balaustra. Bestemmia. Il ragazzino, la schiena verso il vuoto, cerca di allontanarsi dal bordo, ma una raffica di vento lo spinge indietro. Allunga una mano verso suo padre. L’uomo getta la sigaretta e fa un passo verso di lui.
Un secondo dopo il ragazzino si libra in un volo scomposto, di schiena, mentre con le mani cerca di riafferrare il bordo ormai lontano. Sul ponte la gente commenta ad alta voce, qualcuno ride mentre il ragazzino rimbalza una, due, tre volte agganciato all’elastico. Infine rimane penzoloni a testa in giù. Il gommone si avvicina per riportarlo a riva.
“Che cazzo c’ha da piangere, questo?” dice l’uomo al timone.

“Mi hai spinto tu, papà, a fare sempre meglio.”
Con un gesto della mano che tiene il calice indico la gente, lo sfarzo discreto, la perfezione del mio momento di gloria. “Tutto questo lo devo a te.”
Mi avvicino, alzo il bicchiere. Tu getti a terra la sigaretta, fai tintinnare il calice contro il mio e mi accorgo che ti trema la mano. Con la coda dell’occhio guardi indietro, nel vuoto.

La band attacca a suonare una rivisitazione acustica di Adam raised a Cain.
“Lo conosci questo pezzo, pa’?”
Il vecchio scuote il capo. L’uomo sorride:
“Non fa per te, vero?”
Chiude gli occhi e inizia a ballare. Allunga la mano sinistra verso suo padre, il vino gli cola sulle dita della destra mentre ondeggia al ritmo della musica.
“Ho pensato di non firmare, sai? Mandare tutto all’aria.”
Il vecchio sbuffa dalle narici, un tremore gli increspa le labbra.
“Ma che vuoi farci” continua il figlio. “Una vita storta non la raddrizzi in un giorno.”

La cosa peggiore è sapere che a modo tuo mi hai sempre amato, che hai fatto del tuo meglio.
“Tra una settimana è il mio compleanno, papà. Pensi sia troppo tardi per un pianoforte?”
Mi guardi come se fossi pazzo, ma non sono mai stato tanto lucido come ora.
“Non dovresti stare seduto lì” dico. Cammino all’indietro verso la sala e inizio a ridere, perché dopo tutti questi anni sono finalmente solo. Tu non sei che un ragazzino spaventato, seduto su tredici piani di finestre buie.
La tua ombra è caduta oltre il parapetto della terrazza.

Photo by Shane Rounce on Unsplash

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