Alle tre del pomeriggio i falegnami si sfilarono i guanti, gli impiegati spensero i computer, le sarte misero da parte stoffe e pellami. Giovanni Piccolo gettò sul banco il trapano elettrico e si asciugò le mani sudate sulla tuta. Guardò in alto, verso le vetrate degli uffici. Oltre la tenda scostata della direzione riconobbe la sagoma di Mauro Costa, amico d’infanzia e amministratore della Fernando Costa Divani.
Era un venerdì di dicembre e quel giorno la fabbrica chiudeva in anticipo. L’indomani Costa si sarebbe sposato con Rebecca Longo, ex operaia del reparto falegnameria, e così aveva deciso di festeggiare regalando a tutti qualche ora di libertà. Dopotutto, quella storia d’amore era nata e cresciuta lì dentro, tra le macchine e gli operai che avevano fatto di quell’azienda il fiore all’occhiello dell’artigianato brianzolo.
Quanto a Giovanni Piccolo, in qualità di testimone di nozze, era da settimane impegnato nell’organizzazione di quello che definiva il più indimenticabile degli addio al celibato e si apprestava, parole sue, a scatenare l’inferno. Mostrò il pollice alto in direzione della finestra: era il momento della prima prova. Costa sapeva già cosa doveva fare.
Venti minuti più tardi i dipendenti della fabbrica erano in strada ad aspettare. Videro il loro capo uscire dal capannone, ancheggiando in un vestitino femminile di lana nera, calze autoreggenti e un seno posticcio. Scarpe dai tacchi alti, ma non esagerati. Sulla testa una parrucca di capelli biondi e ricci.
“Somiglia alla sua futura moglie” commentò una delle sarte, “solo un po’ più bassino.”
“Minchia, vero è!” disse Giulio Tosto, l’impiegato siciliano che si occupava delle spedizioni. “Se ci levi la barba è lei! Ma almeno una zeppa da buttana ce la potevi mettere.”
I dipendenti guardarono Piccolo, dal quale non si sarebbero aspettati tanto buon gusto.
“In effetti abbiamo pescato di nascosto dall’armadio di Rebecca” disse, mentre con il cellulare riprendeva l’amico e lo mandava in diretta Facebook.
“Sì, Giovà, ma anche i capelli sono uguali,” insistette la sarta, “sembra proprio lei.”
Ti ricordi il pomeriggio in cui abbiamo rotto il vetro con una pallonata, in cortile? Ero stato io e tu ti sei preso la colpa.
Quando tuo padre è tornato dal lavoro i miei gli hanno spiegato la cosa, sul portone d’ingresso. Mia madre, sempre con quella vocina da leccaculo, sempre in difesa:
“Sa, dottor Costa, io e mio marito glielo diciamo sempre ai bambini che qui non si può giocare, ma appena ci voltiamo dall’altra parte per fare le nostre faccende…”
Poi tu hai preso l’ascensore e sei salito nell’attico all’ultimo piano, con tuo padre che ti teneva una mano sulla spalla – sai quanto gliene fregava a lui di uno stupido vetro – e io sono rientrato in portineria, come ogni sera, con quella puzza di verdure bollite che non se ne andava mai. Mio padre distribuiva la posta agli ultimi condomini di rientro, con quei suoi inchini del cazzo che faceva con la testa, e mia madre mi ha mollato una sberla che mi fa male ancora adesso.
“E ringrazia che quel bambino è un santo,” mi ha detto, “che sennò ci toccava pure di pagare i danni.”
Aveva visto che ero stato io, capito? E intanto si contava e ricontava le centomila lire che tuo padre le aveva dato per far aggiustare la vetrata. Poi ha messo in tavola la minestra, una roba verde che mi faceva venire da vomitare:
“Mangia.”
Costa se la cavò con stile, nonostante quella trovata del travestimento gli sembrasse un po’ banale. Non voleva deludere Piccolo, che si era dato tanto da fare, il giorno prima, per scegliere quei vestiti dall’armadio di Rebecca. Erano entrati di nascosto nell’appartamento – con le chiavi, ma di nascosto – e avevano riso come quando, da ragazzini, facevano esplodere petardi nelle cantine condominiali. No, non voleva proprio deluderlo, così fece volteggiare la borsetta intorno all’avambraccio e cercò di fermare qualche automobilista. Ricevette in risposta colpi di clacson, insulti. Grandi risate. La prima prova l’aveva superata.
“E adesso dove mi porti, maschione?” disse, mettendo una mano sulla spalla di Piccolo, quasi mezzo metro più alta della sua.
A parte Giulio Tosto, anche lui amico di lunga data del festeggiato, tutti i dipendenti andarono a casa a godersi il pomeriggio di riposo. I tre salirono sulla Golf GT di Piccolo e si diressero verso la seconda tappa di quei festeggiamenti, che l’organizzatore definì una corsa alcolica sulle minimoto, ovvero una gara di velocità da iniziarsi dopo aver bevuto insieme diversi bicchieri di un gin tonic rinforzato.
“L’ho fatto con queste mani” disse Piccolo, sollevando dal volante quelle pale da pizza che aveva in fondo alle braccia.
“Prima mi posso cambiare, almeno?” chiese Costa.
Bevvero l’intruglio nello spogliatoio. Si misero i caschi, le protezioni e si presentarono alla griglia di partenza. Erano in quindici, compresi gli amici storici che si erano fatti trovare lì.
(Sorpresa!
Oh mio dio, che cazzo ci fai coi vestiti di Rebby?
Frocio! Frocio! Frocio!
Dai, troia, fammi toccare.)
Piccolo era partito in fondo al gruppo e superava con facilità quelli che aveva davanti, nonostante la stazza troppo imponente per quel mezzo. La guida veloce era il suo pane. Allungava una staccata, si piazzava all’interno della traiettoria e tanti saluti.
Arrivò alle spalle di Costa e lo mise nel mirino. Guardò i riccioli biondi svolazzare sotto il casco, le gambe fasciate nelle collant con il rigonfiamento all’altezza delle ginocchiere. Gli prese la scia sul rettilineo più lungo, senza farsi vedere, e poco prima della curva lo affiancò. Rimase all’interno della sua traiettoria fino all’ultimo, poi piegò e andò verso la corda. Costa fu colto di sorpresa e tirò il freno. Finì contro le gomme di protezione.
Poi è finita la scuola. Non ci eravamo mai persi di vista, anche se tu avevi fatto il liceo e io l’istituto tecnico. È un miracolo che non mi abbiano mai bocciato. Tu, com’era naturale, ti sei iscritto all’università, mentre io…
Me ne volevo andare da questo cesso di città, da quell’odore di verdure bollite. A me interessavano i motori, lo sai benissimo: quante volte ne abbiamo parlato? Ero in grado di smontarti e rimontarti lo scooter dalle carene all’albero motore in mezza giornata.
Ma come potevo rifiutare, eh? Come potevo quando il distinto, generoso e soprattutto ricchissimo dottor Fernando Costa si è degnato di scendere al più basso dei piani bassi, nella portineria fetida, e mi ha offerto un lavoro nella sua pregiata fabbrica di divani? A mia madre brillavano gli occhi, mio padre aveva il mal di collo a forza di inchini.
La vecchia: “Dì grazie al dottor Costa, Giovanni!”
Il vecchio: “Non sei contento, Giovà? La fabbrica di divani del dottor – inchino – Costa!”
A cena andarono al Pedro. Costa fu accompagnato a capotavola, un po’ barcollante per l’effetto dell’alcol. Le autoreggenti strappate dove avevano sfregato contro le gomme, durante la corsa.
Piccolo si mise dall’altro capo della tavolata. Durante la cena tenne d’occhio Costa e capì che era vicino al limite quando, nel portare alla bocca l’ultima fetta di pizza, lo vide sbagliare mira e spalmarsela in faccia.
Alzò la mano e chiamò il cameriere:
“Un altro giro!”
Hai finito l’università, ovviamente col massimo dei voti. Neanche avessi avuto bisogno di dimostrare qualcosa, di farti una posizione nel mondo… La tua strada era già bella e pronta, fin dalla nascita.
Così, quel 13 settembre, mi hai detto: “Andiamo insieme, domani?”
Era il tuo primo giorno. Che bellezza, eh? Inseparabili come un tempo. Da allora abbiamo iniziato ad andare insieme al lavoro, una volta con la tua e una volta con la mia, come se fossimo davvero colleghi. Eppure sono sicuro che per te era bello, che non sentivi qualcosa di stonato come lo sentivo io. Neanche quando, all’ingresso della fabbrica, tu salivi nell’ufficio della direzione, da dove potevi vedere tutti i reparti, mentre io mi infilavo la tuta e accendevo le luci della falegnameria.
Sei stato da subito un capo modello. Da quando sei arrivato era tutto un commentare che le cose erano cambiate. Sala ristoro con divano e televisore, permessi più facili da ottenere, niente più straordinari obbligatori… Trovavi tempo per tutti, chiamavi ciascuno per nome, cercavi di trovare una soluzione ai problemi. E so che eri sincero.
L’ultima fase di quell’addio al celibato si svolse al parco pubblico, poco lontano dal Pedro. Il locale aveva chiuso la serranda ed erano le tre del mattino. Mancavano otto ore alla cerimonia, che si sarebbe svolta alle undici nella chiesa di San Bartolomeo. Centosettanta invitati più il prete e i fotografi.
Ormai i giochi preparati da Piccolo erano finiti. Al pub c’era stato lo strip tease goliardico e quello serio, c’era stata la torta coprofaga e quella con la sorpresa.
(Dis-cor-so! Dis-cor-so!
Ollelle. Ollalla. Faccela vedè…
Per lo sposo Hip Hip – rutto generale.
E giù a bere.)
Nel parco Piccolo aveva pensato di organizzare una specie di staffetta con le braghe calate e una caccia allo scoiattolo con le pietre – era pieno di scoiattoli quel parco – ma si rese conto che i pochi invitati rimasti non avevano più molte energie. E anche lui, ormai, era ubriaco. Di tutta la compagnia, solo Giulio Tosto sembrava avere conservato una minima padronanza di sé.
Per concludere la festa gli restava solo l’imbuto.
Prese sotto braccio il festeggiato, un po’ infreddolito in quel vestitino corto e completamente perso sotto l’effetto dell’alcol. Lo fece sdraiare su una panchina e chiamò gli altri a farsi intorno. Dallo zainetto estrasse un imbuto e una bottiglia di gin. Il festeggiato rise, biascicò qualcosa di incomprensibile e aprì la bocca. Il pubblico fece:
“Ooooooooooh-lè!”
Il liquido iniziò a scendere, il pomo d’adamo di Costa si muoveva su e giù.
Poi un colpo di tosse, un respiro soffocato.
“Forza, Maurino,” disse Piccolo, “non abbiamo ancora finito.”
Costa si calmò, riprese a respirare normalmente. Guardò l’amico negli occhi e gli sorrise.
Piccolo riprese a versare.
Qualche secondo dopo Costa perse i sensi, mentre il gin gli colava ai lati della bocca.
“Fermati, che minchia fai!” disse Tosto. “Così lo ammazzi.”
Ma Piccolo non si fermò, teneva la bottiglia in verticale, premeva l’imbuto più a fondo nella gola di Costa e aveva le lacrime agli occhi.
Poi ci fu quella sera di un anno fa. Mi hai invitato al Pedro dopo il lavoro, ti ricordi? “C’è anche Rebby” hai detto. Quello che forse non sai è che io non avevo voglia di venirci, perché quel giorno avevo sgobbato come un maledetto per quella consegna urgente che partiva il mattino dopo. Ma tu, comodo nel tuo ufficio, con la poltrona girevole di pelle, che cazzo ne sapevi! Però ci sono venuto. Ti dovevo gratitudine e non me lo dovevo dimenticare.
A metà della serata ti è suonato il cellulare e sei sparito. Tuo padre, che era rimasto in ditta, aveva bisogno urgente di trovare alcune carte, sempre per quella spedizione. Almeno, questo è quello che ricordo.
Rebby… Rebecca, era incazzata nera. E alla pinta di doppio malto che aveva bevuto ne ha aggiunte altre due. Non ne poteva più di quel tuo correre sempre dietro al lavoro, dietro a chiunque avesse bisogno. All’epoca non lavorava già più con noi da un annetto, mi pare, e avevate già fissato la data del matrimonio. Io la guardavo e non sapevo che dire. Lei si lamentava: “Alla fine mi ritrovo sempre sola e non posso nemmeno maledirlo, perché lui è troppo perfetto. A volte lo odio proprio!”
Sì, sei sempre stato un perfettino del cazzo. Buono da fare schifo. Anche adesso, mezzo morto su questa panchina, mi sorridi ad occhi chiusi come se fossi la persona più importante della tua vita. Dio santo, sto perdendo il controllo.
Me la sono scopata, Mauro. Questo lo devi sapere. Siamo usciti dal Pedro che non si reggeva nemmeno in piedi, la guardavo ancheggiare nel vestitino di lana nera, i tacchi alti ma non cafoni, quei riccioli biondi. Bella topa, tutto sommato, senza la divisa da operaia. Allora le ho preso la mano e le ho detto: “Facciamo due passi nel parco.” Proprio qui, dove siamo adesso.
L’ho portata dietro a quegli alberi, in quell’angolo dove nessuno ci poteva vedere. L’ho presa da dietro, l’ho sbattuta contro quel tronco, e non le ho chiesto il permesso. Non ti ha mai detto niente, vero?
Giulio Tosto strappò di mano l’imbuto a Giovanni Piccolo. Dovettero prenderlo in due per spostarlo, mentre cercava di versare altro gin nella gola di Costa. Chiamarono i soccorsi.
Con la bottiglia in mano Piccolo si allontanò da solo verso un angolo buio del parco, sedette con la schiena appoggiata a un albero. Bevve un sorso e guardò gli amici muoversi intorno al corpo di Costa, sentì le loro voci spaventate.
Non abbiate paura! Mauro va in paradiso, di sicuro.
Giovanni Piccolo alzò la bottiglia e brindò:
Alla nostra amicizia.
[Racconto pubblicato sul sito artedelnarrare.com]