Con la Cina nel mirino

3 febbraio
L’edificio dell’ambasciata cinese a Wellington incute timore. Varcare le sue colonne di marmo, salendo ad uno ad uno i gradini grigi e affilati, è come fare un tuffo in un’altra realtà. In un paese come la Nuova Zelanda, in cui le case basse e luminose sembrano dirti “Prenditi il tuo tempo, goditi il tuo spazio”, l’ambasciata cinese ti dice invece “Tu, miserabile individuo, ricorda che non hai alcun significato se non alla luce dello Stato.”
Fin qui il nostro viaggio è andato alla grande. Ci siamo presi il nostro tempo e in tre giorni di sole abbiamo percorso circa 700 Km. Abbiamo saputo concederci ampie digressioni, malgrado la solita fretta di andare lontano. Siamo stati sul monte Taranaki, che visto sulla mappa somiglia ad un occhio dalla cui iride si diramano una miriade di capillari (in realtà fiumi). I maori l’hanno chiamato così per la sua lucentezza dovuta alla neve che lo ricopre (tara = montagna; ngaki = lucente). Il capitano Cook invece l’ha chiamato Egmont: evidentemente secondo lui sembrava un uovo al tegamino. Tutt’oggi il monte ha due nomi ufficiali (cosa non rara in Nuova Zelanda), ma io sono dell’idea che si dovrebbe chiamare Monte Occhioiniettatodisangue. O Monte Occhio.
Dopo la montagna, il mare. Ci siamo fermati a Wanganui, sul Mar di Tasman, e abbiamo passeggiato sulla sabbia scura con le scarpe in mano.
Intimiditi dal ricordo dei nostri sguardi grigi dello scorso ottobre, quando pioggia e vento ci avevano costretti a lunghissime giornate all’interno dell’abitacolo gocciolante di Kiwi, prima di partire temevamo il peggio. Ma ora è estate, ed è tutta un’altra vita. Ci fermiamo quando abbiamo fame (e non quando piove un po’ meno) e ci rilassiamo sui tavoli da pic-nic, nelle tante aree di sosta con bagno (e qualche volta barbecue) sparse per la Nuova Zelanda. Nelle stesse aree di sosta ci fermiamo a dormire: ci spostiamo nella parte posteriore della macchina, tiriamo le tendine e buonanotte. Al mattino tiriamo fuori il fornellino per il caffè, il pane e la Nutella e ci accomodiamo al tavolo per la colazione.
Arriviamo a Wellington di domenica pomeriggio ed io ho l’ennesima conferma: non sono tagliato per le grandi città. Non so mantenere la calma in quei posti in cui parcheggiare la macchina costa di più che continuare a guidarla tutto il giorno (4 dollari all’ora!). Non mi pare possibile che se prendi un senso unico sbagliato ti ritrovi in un labirinto incomprensibile, in cui devi scegliere in fretta: destra o sinistra? E scegli sempre la sinistra e invece era la destra. E vaffanculo.
Così ci allontaniamo dal centro e tiriamo giù le bici. Con quelle è un po’ più semplice girare e riusciamo ad arrivare al porto, dove c’è gente che cazzeggia, ragazzini che si tuffano, fidanzati che si baciano.
Per la notte riprendiamo la macchina e ci spostiamo a Makara Beach, a venti minuti dalla città oltre le colline. È un villaggio di poche case, tutte a pochi passi dal mare. La spiaggia di sassi bianchi è enorme e sembra il posto ideale per dormire in macchina.
Mentre ci guardiamo intorno un ragazzo si esibisce in derapate alla guida di una piccola Dune Buggy autocostruita. Poi si ferma nel suo garage, ad un lato della spiaggia, e aiutato da un amico armeggia con una chiave inglese dalle parti del motore. Pochi minuti dopo il bolide ricomincia a percorrere la spiaggia a tutta velocità, ma questa volta alla guida c’è una biondina di circa vent’anni.
Al lato opposto della spiaggia c’è una casa di legno scuro, isolata dalle altre. Nella veranda tre uomini bevono birra e guardano verso il mare. Un cagnolino bianco che stava con loro inizia a correre dietro alla Dune Buggy, abbaiando. La ragazza cerca di evitarlo, frena e poi riparte schizzando sassi con le ruote. Ma il cagnolino non si arrende e le si para davanti di nuovo, nonostante i richiami di uno dei tre uomini della veranda. Questa volta la frenata è più lunga. Il cane è salvo per poco, ma le piccole ruote sono infossate e la ragazza esce dall’abitacolo per cercare di liberarle. Il padrone del cane, calzoni corti e scarponi da trekking, una maglietta bianca con la scritta “Proprietà dell’ospedale psichiatrico”, si avvicina velocemente e afferra il telaio della macchina. Ma non è per liberarla: prima la rovescia su un fianco, poi a ruote in aria. È incazzato nero e inveisce contro la ragazza. Non ne può più, dice, che continuino a terrorizzare la gente con quella cazzo di macchina. Partiti dal garage, nel frattempo, i due meccanici percorrono la spiaggia di corsa, brandendo l’uno un martello e l’altro una chiave inglese da 32.
Inizia un litigio furibondo in cui fucking è la parola più ricorrente. Uno dei due ragazzi, quello col martello, si avvicina all’uomo e alza il braccio. L’uomo con gli scarponi non indietreggia, ma evita di replicare ulteriormente. Intanto anche gli altri due uomini hanno lasciato la veranda e si sono portati alle sue spalle. Stanno con le braccia conserte, decisi a mantenere la pace ma pronti ad intervenire. Non so come né perché, ma tutti quanti riescono a calmarsi prima dell’irreparabile. I ragazzi chiudono la Dune Buggy in garage ed entrano in casa, e i tre uomini ritornano nella veranda.
Mezz’ora più tardi, mentre io e Laura mangiamo un’insalata di tonno, vediamo avvicinarsi a piedi una squadra di sei poliziotti e un cane antidroga. Hanno parcheggiato dietro la curva per non essere visti e in pochi secondi circondano la casa dei due ragazzi. Quello all’ingresso principale bussa alla porta, mentre gli altri controllano che non scappi nessuno.
Nelle ore seguenti ci saranno perquisizioni e interrogatori. La scena finale, ormai al crepuscolo, vede i due ragazzi fare un ultimo tiro dalla sigaretta e gettarla a terra con il gesto degli sconfitti, prima di salire sui sedili posteriori della macchina della Polizia.
Vi racconto questo per mettervi in guardia. Se venite in Nuova Zelanda, non fate gli scemi con la Dune Buggy sulla spiaggia, perché se la prendono sul serio.
Il mattino dopo ci svegliamo sotto un cielo grigio e il mare ci soffia addosso un vento poco gentile. Mentre ritorniamo a Wellington cadono le prime gocce di pioggia e i tergicristalli spalmano uno strato di polvere e salsedine sul parabrezza . Parcheggiamo davanti all’ambasciata cinese: alla fine è per questo che siamo venuti. La Cina è il nostro prossimo obiettivo.
Questa pioggia non aiuta, rende la penombra dell’ufficio visti ancor più pesante. Il ragazzo dietro lo sportello ha la faccia fresca di rasatura e un colletto immacolato. Parla un inglese più decente del nostro e sorride con cordialità, ma non c’è traccia in lui della disponibilità che spesso abbiamo incontrato tra i neozelandesi: gente che passa dall’altra parte della scrivania e ti spiega, ti disegna mappe, fa telefonate al tuo posto per chiedere informazioni. Ma quel che c’era da capire l’abbiamo capito: è troppo presto per il visto, e questo ci incasina le cose. Dovremo stare in Nuova Zelanda ancora per qualche mese, e il visto cinese va fatto al massimo un mese prima di partire.
Ci rimettiamo in macchina e puntiamo verso il porto. Visto che la trafila burocratica è rimandate, se non altro possiamo fare il biglietto per l’Isola Sud e prendere il traghetto al più presto.
Guidando nel traffico cittadino, dallo specchietto retrovisore vedo le biciclette oscillare pericolosamente sul gancio di traino. Il cielo intanto si fa sempre più pesante, gonfio di cattivi presagi…
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