Carramba che ironia!

La sede del Mojoca
Nel piccolo ufficio dell’équipe di strada, sempre in disordine nonostante la pulizia giornaliera che oggi per altro è toccata a me, c’è troppa gente per trovare un posto a sedere. Mi appoggio ad un mobiletto accanto alla porta d’entrata, spostando indietro col sedere il telefono tenuto insieme con lo scotch, le cartacce, le felpe e i bicchieri appiccicosi di caffè.
Oggi è giovedì, e come ogni giovedì mattina alcuni dei ragazzi con cui abbiamo lavorato in strada sono stati invitati in sede a conoscere le attività del Movimento. La mattinata è finita e, come da prassi, ci si riunisce per parlare con quelli che, dopo aver assistito alla presentazione, sono interessati a partecipare. Si chiede loro a quale meta vogliono arrivare e in che modo hanno intenzione di partecipare, se cerchino solo un appoggio temporaneo per poi tornare in strada, o se siano seriamente interessati ad intraprendere un percorso attraverso le quattro tappe del Mojoca: la partecipazione alle attività di strada, la scuola e i laboratori, l’inserimanto nelle case alloggio e infine il reinserimento nella società.
Oggi abbiamo davanti Hugo, che molto schiettamente dice che a lui interesserebbe solo un aiuto legale per conseguire un documento d’identità, visto che non ce l’ha. Sta seduto a capotavola. Intorno, almeno tre gironi di persone: quelli seduti al tavolo, quelli in piedi alle loro spalle e quelli che, come me, cono abbarbicati sui vari mobili lungo le pareti della stanza.
Hugo non sa di preciso quando è nato, dice di avere più o meno quindici anni. Suo padre, di cui non conosce il cognome, non l’ha mai conosciuto, e a quanto ne sa lui è morto da molto tempo. In poche parole, nemmeno lui saprebbe dire di preciso il suo nome completo. Wendy, la nostra coordinatrice, gli fa altre domande per cercare di capire qualcosa di più, e mentre lui risponde intorno si crea una confusione sempre maggiore: battute, risate, scherni. Io e Laura restiamo allibiti. Io penso che, se fossimo in Italia, tutto questo avverrebbe in una stanza pulita e fin troppo ordinata, forse con un paio di disegni infantili alle pareti per stemperarne l’austerità. Di questo colloquio si occuperebbero persone presumibilmente ben preparate, le quali userebbero tutto il tatto necessario nel porre certe domande, parlando magari con un tono accogliente, comprensivo.
Invece qui l’umore è alto. Lo stesso Hugo ride quando racconta che un paio d’anni fa, a scuola, ha fatto amicizia con una compagna che poi ha scoperto essere sua sorella da parte di madre (anche lei mai conosciuta). A sentire questo i ragazzi dell’équipe esplodono, quasi battono i piedi a terra dal ridere, lo sfottono. E lui, bonariamente, li manda a fare in culo. La coordinatrice si copre la faccia con le mani come a dire: “Certo che sei un caso disperato, tu!”
Solo noi siamo in imbarazzo, ma a parte noi due non c’è nulla di stonato in tutto questo. Non c’è nulla di crudele, se non quel che ormai è stato.
Ride Helmer, che quando aveva nove anni sua madre gli ha dato uno zainetto con dentro le sue cose e gli ha detto: “Ormai sei grandicello, puoi farti la tua vita”. E tutto perché il piccolo non aveva voluto accettare, su di sè e sulla propria madre, le violenze e i maltrattamenti del patrigno.
Ride Diana, cresciuta fino agli otto anni con un padre alcolista e violento e con la sua matrigna. Entrambi le hanno sempre detto che la sua vera madre era morta. Alla fine l’ha conosciuta, sua madre, all’età di diciotto anni, da dietro le sbarre di un istituto correzionale.
Anche Carlos ride. Cresciuto con la nonna fino ai quattro anni, prima di finire in strada, visto che la madre non lo ha mai voluto con sé.
E ride Mirna, cresciuta fino ai dieci anni con la nonna, la quale l’aveva sottratta ai genitori tossicodipendenti raccontandole che erano morti. All’età di dieci anni Mirna ha scoperto che quella che credeva essere sua zia (Carramba!) era in realtà sua madre ed è andata a vivere con lei. Ma per poco, visto che con i suoi veri genitori ha trovato botte e maltrattamenti e che la nonna, ormai offesa, non la rivoleva con sè.
Tutti loro ridono, e nel farlo forse condividono qualcosa. Intanto Hugo ci saluta. La coordinatrice ha preso appunti e ne parlerà con l’incaricata dell’Ufficio Giuridico per vedere cosa si può fare.
2 comments Add yours
  1. Poi la gente non vuol capire che l'amore, la comunicazione e il sentirsi accettati,sono alla base di un futuro uomo e di una futura donna. In occidente,ormai, si spendono tristemente soldi e tempo in psicologi,psichiatri,medicinali contro ansia e depressioni,per curare carenze affettive.Genitori troppo occupati dal lavoro,dalle posizioni o dai ruoli sociali e che regalano amore caricato su chiavette usb,Mp3 e smart phone.In questi luoghi appena descritti,un amore assente e vissuto violentemente,ti porta,quando va bene, in carcere o in strada.
    Buona continuazione di vita,ragazzi.
    Marisa.

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