Il tuffo

foto di Giovanni Porzio
Sei sul trampolino, sei sulla scogliera, poco importa. Ci sei andato di tua spontanea volontà, perchè il volo ti piace. Non sai esattamente come sarà, o come impatterai, per esperto tuffatore che tu sia convinto di essere: c’è sempre un margine di imprevisto, qualcosa che ancora non conosci sul conto del grande mare. La cosa sicura è che tra pochi secondi sarà tutto diverso, poche storie: dall’asciutto al bagnato (sarà fredda, questo già lo sai); dall’attesa nervosa al darsi da fare per guadagnarsi la riva.
Venerdì scorso io e Laura abbiamo incontrato Gérard Lutte, fondatore del Mojoca (Movimiento de Jovenes de la Calle). Un annetto fa, mentre preparavo uno dei miei ultimi esami universitari, avevo letto il suo “Principesse e sognatori nelle strade in Guatemala” e lo avevo tenuto a mente. Mi ero anche scritto i recapiti sul taccuino rosso che ora ci portiamo dietro. E così, dopo qualche mese di contatti via mail, eccoci lì nel suo ufficio, insieme a Glenda e Diana, due ragazze che hanno vissuto in strada e che ora occupano le cariche più importanti del movimento. Gérard ha 83 anni e una voce incerta, pur nella forza dei suoi argomenti. Dopo una vita di letture e scritture (da buon professore universitario) non ci vede quasi più e io gli afferro la mano mentre guarda in una direzione indefinita davanti a sé: sono contento di conoscerlo e glielo dico. Lui ci parla in spagnolo, e quello che dice è che secondo lui il nostro posto è nell’équipe di strada, quella che va a cercare i ragazzi nei luoghi in cui vivono e propone loro di partecipare alle attività del movimento. Ne avevamo parlato, Laura e io, diverse volte: mica ci metteranno in strada così dal niente, dicevamo. Non conosciamo i luoghi, la gente, la lingua, la cultura… Ci metteranno a fare i braccialetti scooby doo. (Questo lo pensavo io, nel mio abituale ottimismo.) E invece è tutto il contrario, e meno male. Si comincia lunedì mattina.
Dopo un week end passato nella nostra nuova stanza, alla pensione della signora Ernestina, arriva il momento: la sveglia suona e noi ci alziamo. Prendiamo la 13 calle, andiamo al numero 2-41, dove ci aspetta una colazione abbondante seduti alla lunga tavolata dei tanti frequentatori della sede del Mojoca. Conosciamo i nostri colleghi dell’équipe di strada, che oggi come ogni giorno si divideranno in due gruppi: Laura andrà con Alfonzo al Parque Central, io con Erick in un quartiere della zona 3 che si chiama Bolivar, e più precisamente in un posto chiamato Tanke. Ed ecco com’è stato il tuffo.
C’è un muro bianco pieno di murales, intorno a un terreno comunale in abbandono. C’è un cancelletto fatto di rete metallica, chiuso e rivestito di stracci per frenare gli sguardi estranei. Ma per noi si apre ed io entro, i cani mi ronzano in sciami all’altezza delle ginocchia. C’è una tettoia sopra le nostre teste, e un rettangolo di cemento sotto ai nostri piedi. Ed è per questo che loro vengono qui.
Loro. Quelli che sono lungo il perimetro del rettangolo, seduti su vecchi divani recuperati chissà dove. Tengono in mano la bottiglietta di solvente, imbevono il piccolo straccio con gesto esperto, senza regalare niente al pavimento, e se lo portano alla bocca. Merda e solvente: sono gli odori che il mio cervello registra nella memoria, l’etichetta per richiamare alla mente questo posto. I ragazzi fanno fatica, sono lenti nei movimenti, biascicano nel parlare. Ma mi danno la mano nel loro modo di giovani di strada, mi salutano. Si fidano perchè conoscono quelli dell’équipe, perché con noi c’è Byron che è uno di loro, il loro rappresentante. Mi dicono il loro nome, anche se è difficile capire le loro parole impastate dal torpore del solvente. Yo soy André, dico. Mucho gusto.
(Mi chiamo André dalla notte di Capodanno, quando a Città del Messico ho dovuto spiegare a un ragazzino che non sono gay. Non mi ha creduto.)
I ragazzi iniziano ad alzarsi per raccogliersi in strada, dove faremo le attività: le loro compagne Stefany e Sandra li stanno già aspettando. Tra soli dieci minuti li ritroverò tutti pieni di vigore e voglia di scherzare. Ma intanto io ed Erick andiamo a fare un giro qua intorno: non tutti dormono sotto la tettoia del Tanke. Un gruppo è sempre un gruppo, ancor più quando è marginale. E se c’è un gruppo, ci sono anche gli outsiders.
Incontriamo una bambina di dieci anni con un bambino più piccolo, forse il fratello. Sono storditi dal solvente tutti e due e lei si mostra diffidente e protettiva. Mentre Erick le spiega chi siamo spinge via il piccolo e fa in modo di andarsene, non si fida, ha paura. Così ci avviciniamo ad un altro ragazzo, seduto al lato della strada in compagnia del suo solvente: gli parliamo, ci presentiamo. Non riesce ad orientare gli occhi dove vorrebbe, le palpebre sembrano pesargli come tende di velluto. Il suo modo di parlare è ben oltre la caricatura del più fradicio degli ubriachi, ma una cosa riesce a dirla ad Erick, che gli propone di partecipare alle attività: io voglio solo mangiare, dice. E se lo dice è perchè sa che prima si fanno le attività e solo dopo si mangia: questa è la regola del Mojoca, la partecipazione. Comunque, chissà perchè, quando già ce ne stavamo andando, mi viene di tendergli una mano, fingendo di non aver capito quel che ha detto. Io gli do la mano e lui la prende, si tira su. Barcolla, lo prendo al volo un paio di volte mentre continua ad inalare il solvente. Cammina con noi fino all’altro lato della strada, dove c’è un ragazzo seduto a terra, appoggiato alla colonna sporgente di un muro. Dall’altra parte della colonna un cumulo di escrementi assediato dalle mosche, proprio come lui. Non ne vuole sapere di alzarsi e così ce ne andiamo. Dopo pochi metri già ci perdiamo la mia nuova conquista: Erick gli ribadisce che deve partecipare e lui se ne va. Alla fine della spedizione torneremo con tre ragazzi, due dei quali in luglio diventeranno – per la quinta volta, per quanto riguarda lui – genitori.
La mattinata passa in fretta, tra lo shampo collettivo e gli esercizi di matematica. Rientriamo al Mojoca, traballando sull’autobus affollato. Mi chiedo se anche Laura ha visto quello che ho visto io. Fra poco glielo chiederò, a tavola.
A proposito, cosa ci sarà da mangiare?

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